Franco Vaccari

Rumori Telepatici
 
Nell'ambito di Progetto XXI
 

09102014 \\ 30112014

Rumori Telepatici è il titolo della prima personale di Franco Vaccari a Napoli, mostra in cui la manifestazione del segno dell’artista avviene attraverso l’esposizione di lavori che si configurano come strumenti di evocazione, nella raffigurazione di una ricerca che si afferma e si definisce attraverso l’incontro e la contingenza. L’opera, a cui viene volutamente negato lo statuto di oggetto estetico, diviene lo strumento con cui suscitare l’attenzione partecipata dello spettatore e simultaneamente spostarla verso l’impalpabile, ciò che è meno strettamente connesso ad una percezione decifrabile ed immediata di un univoco concetto o espressione. La percezione si sposta dunque sul piano del non totalmente determinato, quel luccichio che è visione appannata e rumore soffuso, come quando si è pervasi dalla strana sensazione del non sapere se ciò che si è visto o udito è reale o immaginato, personale o condiviso.
L’esposizione di lavori storici ma inediti, come le strip di foto tratte da Photomatic d’Italia 1973-1974, realizzate in Campania e mai esposte in precedenza; la creazione di ambienti al limite tra lo spazio privato e pubblico, con la realizzazione di una camera ottica percorribile e di uno spazio in penombra arredato solo dal suono; la proiezione di video storici I Cani Lenti, 1971 e Provvista di Ricordi per il Tempo dell’Alzheimer, 2003 ed infine la decifrazione di codici QR, compongono la mostra completata dalla luminescenza del faro da richiamo che abbaglia il raggio di cielo sovrastante Palazzo Caracciolo di Avellino.
Nella seconda metà degli anni ’60, Franco Vaccari ha spinto l’uso della tecnologia ad un automatismo non ancora realizzato, lasciando il mezzo fotografico libero di operare senza il filtro dell’autorialità e proponendo allo spettatore di comporre la sua opera. Alla Biennale di Venezia del 1972, nella sua sala personale, una cabina per fototessere invitava il visitatore a farsi immortalare automaticamente e lasciare la traccia istantanea del suo passaggio sulla parete attigua. Facendosi teorico del selfie con 40 anni di anticipo, Vaccari propone la dissoluzione dei condizionamenti espressivi legati alla presenza dell’artista dietro la macchina, permette al soggetto ritratto di instaurare un rapporto privato con il mezzo e anticipa un fenomeno di costume che è piena espressione  di un’epoca, la nostra, basata sulla diffusione pubblica della propria immagine nella costante condivisione dell’esperienza privata. Attaccare a muro la propria strip era come twittare, pubblicare e linkare la propria foto con la speranza di ricevere più like possibili, quando però la rete ancora non esisteva. Lo stesso sistema valeva per le cabine a pagamento disseminate in giro per l’Italia tra il 1972 ed il 1974 che pubblicizzavano la ricerca di volti per la realizzazione di un film tramite la selezione delle foto lasciate nel raccoglitore. Le immagini raccolte allora costituiscono le strip della serie Photomatic d’Italia (1972-74) esposte sulle pareti della Fondazione Morra Greco per la prima volta in assoluto. I selfie dei napoletani, salernitani ed avellinesi dell’epoca, i loro sguardi, gesti, abiti e tagli di capelli, costituiscono un documento di costume vivissimo che non resta una sterile documentazione realistica della società dell’epoca ma lascia spazio alla creazione di un legame di un senso, che sgorga dall’incontro tra l’emozione dell’osservatore e l’entusiasmo del soggetto autoritratto.
Se il primo spazio espositivo apre all’indagine dell’inconscio tecnologico nell’esposizione in tempo reale, la riflessione sul rapporto tra spazio pubblico e privato si realizza grazie alle interferenze della sala successiva. La camera oscura ricreata nello spazio attiguo catapulta fisicamente nella duplicazione immediata della dimensione dell’esperienza. Si entra all’interno di una camera ottica che funziona con lo stesso meccanismo della macchina fotografica, dove il riflesso dell’ambiente esterno penetra lo spazio interno stagliandosi contro il muro. L’irruzione della strada nello spazio espositivo rende possibile lo sviluppo di una visione e di un ascolto altro, quando la personale decodificazione delle forme e delle ombre che appaiono si completa nell’interpretazione dei rumori che contraddistinguono il fuori. La camera ottica diventa anche sonora. Vaccari suggerisce allo spettatore l’ascolto storico del primo spazio mentre qui spinge verso un percepire complesso, un insieme di micro sensazioni che ci mettono in comunicazione con qualcosa a cui non partecipiamo direttamente, come l’immagine fotografica ed il  riflesso del contingente.
Con la proiezione de I Cani Lenti, il rumore si trasforma in suono e il chiacchiericcio della piazza si converte nelle note dei Pink Floyd che accompagnano la proiezione di uno dei video più rappresentativi della poetica dell’artista. Anche in questo caso c’è un’anticipazione di carattere tecnico: filmare al rallentatore i protagonisti, i cani, abbassando il piano di ripresa dall’altezza uomo a quella dell’animale. Lo slow motion non era ancora realizzabile in final cut e la visione di qualcosa di estremamente comune veniva frammentata attraverso il rallentamento del movimento per permetterne una percezione quasi centellinata con un sottile carattere indagatore.
Se photomatic, camera oscura e video rappresentano la testimonianza storica di un’opera estremamente contemporanea, non c’è da stupirsi per la presenza di un faro da richiamo, ed il suo fascio luminoso a 400 metri di altezza, posto al primo piano della Fondazione. Il faro esposto è esattamente della stessa tipologia di quello usato per richiamare il pubblico di giovani avventori delle discoteche e viene qui utilizzato per inviare un messaggio chiaro: quello di un arte che diviene tale perché basata sull’interazione con l’altro e sul rischio rappresentato da quello scambio. Del resto, perché andare in un luogo d’aggregazione se non per scontrarsi e farsi completare dagli sguardi e dalle interferenze altrui? Che lo spazio espositivo diventi un luogo di condivisione ed incontro, di partecipazione non in quanto meri fruitori ma come creatori di senso di ciò che viene mostrato. Nell’arte di Vaccari si raggiunge quasi un piano di equità tra la funzione dello spettatore e quello dell’artista, attribuendo ad entrambi i soggetti un ruolo decisivo nella costruzione e rappresentazione dell’opera. L’esistenza di questo rapporto è la dimostrazione di quanto l’arte possa dedicarsi all’immediatezza della sensazione e non pretendere di raggiungere forme d’intellettualismo che prescindano dalla relazione con la realtà.
Per mettere ulteriormente a proprio agio l’avventore-spettatore, Vaccari lo trasporta nella penombra in una dimensione intima, arredando l’ambiente con la registrazione audio di una segreteria telefonica, invito a far sentire chiunque a casa. L’atto partecipativo viene subito manifestato con l’esposizione di una serie di QR Code da decifrare tramite il proprio smartphone, associati ciascuno ad un immagine.  Il lavoro sul linguaggio del codice a barre era già stata effettuata a partire dal 1989 e successivamente alla Biennale di Venezia del 1993 con bar code in cui l’utilizzo dell’estetica del codice, usato per l’identificazione merceologica e considerato come immagine puramente funzionale priva di qualsiasi dimensione simbolica, diventa il modo per richiamare l’attenzione su di un evento di cronaca e allo stesso tempo si trasforma, in quanto bar, come luogo fisico in cui  rilassarsi e riflettere su quanto visto. Continua l’indagine e l’interesse sulla percezione di quel segno quando Vaccari, procedendo di pari passo con l’evoluzione del linguaggio digitale, passa dalla speculazione sul codice a barre a quella sul più giovane codice QR. Fondamentale e poetica l’azione di significato innescata dal rapporto fra i due elementi esposti in relazione tra essi, l’immagine storica ed il codice di ultima generazione. La lettura dell’immagine è immediata, ci si guarda e ci si specchia nella sua essenza cercando ragioni ed immaginando scenari che rimangono parzialmente oscurati dall’illeggibilità simultanea dei codici. Dopo la decodifica del disegno di pixel, la frase decifrata diviene un’improvvisa apparizione di senso, il flash che illumina la foto e la carica di contenuti e spunti. L’effetto di decodifica diventa ironico e pungente quando ci si ritrova ad osservare con uno smartphone in mano, il più vicino surrogato di macchina fotografica del nostro tempo, un’immagine risalente al festival dell’Isola di Wight negli anni ‘70, in cui la generazione del vivere e non quella del vedersi vivere, che sentiva l’esperienza piuttosto che immortalarla, può candidamente interferire sul nostro sistema di pensiero e di fruizione legato all’uso contemporaneo della tecnologia.
A chiusura del cerchio, l’eredità che Vaccari lascia attraverso la traccia indelebile del proprio passaggio, rappresentata da Provvista di Ricordi per il Tempo dell’Alzheimer, 2003. Il totale coinvolgimento di sé in un video, in cui la sua vita in tutti gli aspetti più privati diviene un racconto, si configura come la raccolta personale dell’esperienza per la preservazione di un vissuto che ha un senso individuale ma che senza pretese diventa universale. Nell’individuazione di una cura per la malattia che sta semplicemente nel tentativo di opporsi all’oblio tra autoscatti e dimensioni impalpabili, s’intrufola quel luccichio costituito dalla sensazione dell’udito, del visto, dell’esperito, dello svelato e dell’interiorizzato che diviene suono, immagine, racconto da cui farsi, telepaticamente, compenetrare.

 

Anna Cuomo

 

 

Tutte le immagini Courtesy Fondazione Morra Greco, Napoli
© Amedeo Benestante