12.12.2013 \\ 01.03.2014
Con i nuovi progetti personali di Bettina Allamoda (Berlino) e Geoffrey Farmer (Vancouver), la Fondazione Morra Greco è lieta di annunciare il quarto e ultimo appuntamento della rassegna espositiva intitolata: Hybrid Naples: l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose.
Entrambi gli artisti lavorano con immagini e oggetti trovati a Napoli durante la preparazione della mostra. Allamoda presenterà una serie di sculture che sono tattili e allo stesso tempo molto ibride, mentre Geoffrey Farmer presenta un film ambizioso, controllato al computer, un work in progress che incorpora migliaia di immagini trovate, tessute insieme dal suono, e da parametri algoritmici.
Il titolo della rassegna nasce da una riflessione sulla città di Napoli e sul suo ruolo di simbolo di ibridazione in continua trasformazione. Scrisse Richard Sennet nel 2006: “la città aperta per eccellenza è Napoli, la città chiusa è Francoforte”. Qui Napoli è intesa come città dotata di capacità di improvvisazione, e quindi di adattamento, e come luogo capace di accoglienza (nel bene e nel male) nei confronti della diversità e della dissonanza, in contrapposizione con un modello urbano di sovradeterminata omologazione. L’idea di città ‘aperta’ e ibrida non si riferisce tuttavia soltanto a uno stato di fatto attuale, ma è legata ai suoi tremila anni di storia in cui Greci, Etruschi, Romani, Spagnoli, Tedeschi, Olandesi e molte altre culture hanno lasciato il segno del loro passaggio.
L’ibridazione intesa come tecnica e realtà culturale di intersezione e mescolanza di elementi e influenze culturali diversi è un fenomeno che in anni recenti ha subito un sorprendente processo di accelerazione grazie a fattori tecnologici di varia natura, dallo sviluppo dei social media all’utilizzo della tecnologia digitale da parte degli artisti contemporanei, e che influenza quella che oggi consideriamo arte contemporanea e quindi, potenzialmente, ogni aspetto della realtà. Sarebbe tuttavia un errore attribuire un carattere di casualità all’ampiezza di tecniche ed elementi possibili che caratterizza il lavoro degli artisti contemporanei. A questo si riferisce la citazione del grande filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744) che costituisce il sottotitolo della mostra: “l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose”, tratta dalla famosa Scienza nuova (1725), l’opera più importante di Vico, in cui il filosofo teorizza lo sviluppo della civiltà umana in termini di ricorso ciclico. L’assioma “l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose” ci impone una riflessione sul fatto che l’esperienza condivisa, tipica dell’epoca in cui viviamo, genera idee condivise e non il contrario (una anticipazione della famosa proposizione di Karl Marx secondo cui “l’essere determina la coscienza”).
Prendere questo concetto come spunto della mostra significa volere affermare che alla base dell’opera vi sono l’esperienza dell’artista e il riflesso che questa esperienza assume nei suoi processi cognitivi, e non il contrario: le idee non sono prodotti casuali o preconfezionati che l’artista “lancia” allo spettatore, né il mero risultato di indicazioni date dal curatore alla ricerca di immagini di ibridazione.
Le prime installazioni, con i rigorosi interventi sculturali di Max Frisinger e i video divertenti e surreali di Shana Moulton, ne sono un esempio, così come l’opera realizzata da Christian Waldvogel in omaggio a Giordano Bruno, una macchina alimentata da una candela che produce pianeti di un universo immaginario, e quella di Eric Wesley, che presenta la versione contemporanea di un’armatura in uno spazio trattato come una spettacolare messa in scena televisiva. La terza parte esplorava altri aspetti: quello di Matheus Rocha Pitta presentava una serie di lastre in cemento che incorporavano diverse immagini tratte dai principali quotidiani internazionali che ritraevano persone che si stringevano la mano, si abbracciavano, si baciavano, a ricordo delle stele funerarie dell’antica Grecia ed i gesti di accordo fra gli dei; Klaus Weber ha creato dei negativi scultorei di un numero di napoletani contemporanei: un omaggio alla città in forma di sogno.
Adesso è il turno di Bettina Allamoda e Geoffrey Farmer.
Cosa ci emoziona? Nel lavoro di Geoffrey Farmer la domanda è centrale in molti modi: oggetti, letteralmente, cineticamente, costretti a muoversi; immagini che muovono qualcosa dentro di te, qualcosa che non sapevi neanche ci fosse: suoni che fanno vibrare delle corde nascoste e che ti coinvolgono. Questo rapporto flessibile fra oggetto, immagine e suono – che fluttua fra il perturbante e il comico, il sentimentale e il bizzarro – viene esemplificato con vivacità dall’ultimo progetto di Farmer Let’s make the water turn black (2013), un’installazione che è come una coreografia in più parti, che coinvolge più di 70 elementi scultorei (inclusi la testa di un leone in pietra spaccata in due, illuminata dall’interno, un cactus con gambe e fallo, oppure una siepe ben tagliata con una piuma che oscilla) che sono pronti a muoversi, o ad essere illuminati, in corrispondenza di una intricata partitura di luce e suono controllata da un computer, chiamata a raccontare la storia della vita di Frank Zappa. Il lavoro di Farmer è un aleatoria genealogia della controcultura americana, che isola, piuttosto che illustrare, i timbri e le sensazioni di questa tradizione attraverso la lente dello “zappaesque”, che affonda le radici nelle grottesche sale da musica degli anni ‘30, nei mordenti folk e blues rurali degli anni ’40, nella musica black metropolitana degli anni ‘50, e la psichedelia spacca-testa degli anni ’60.
Per Napoli, Farmer ha ulteriormente sviluppato un progetto in divenire che è diventato un lavoro intitolato The Process (2013). Anche qui l’approccio è abbastanza simile, sebbene trasferito al video. Un collage di fotografie – alcune delle quali trovate a Napoli, in libri e riviste a buon mercato – si sviluppa, accompagnato da una colonna sonora di rumori, applausi, zoccoli di cavalli, passi sulla ghiaia, in breve, quei rumori che puoi trovare in una library per il cinema o la radio. E mentre il film procede, si nota che le immagini sembrano cucite insieme non da una narrativa, ma da quel tipo di relazione algoritmica a cui il web ci ha assuefatti: ‘tag’, come ad esempio ‘gente che cammina’, o ‘armi’, o entrambi. Oppure animali, o ‘carino’, o ‘rovina’, o ‘montagne’. Tuttavia questi ‘tag’ non sono espliciti, dobbiamo indovinarli, mentre i suoni li fondono in un tutt’uno – illusorio. Richiamando alla memoria i cortometraggi collage del regista canadese d’avanguardia Arthur Lipsett, l’opera disvela un panorama di sentimenti, desideri e paure collettive, come una vivida memoria fantasmatica. Alla Fondazione Morra Greco l’opera è accompagnata da altri elementi scultorei e da audio.
Tutte le immagini Courtesy Fondazione Morra Greco, Napoli
© Amedeo Benestante