24.09.2025 \\ 25.10.2025
Tra il 1967 e il 1969 Vito Acconci fonda insieme alla poetessa newyorkese Bernadette Mayer la rivista di poesia 0 to 9. Il magazine conta sei numeri e include una selezione di poesie e scritti che mettono accanto alla penna di grandi scrittori e poeti come Robert Walser, Raymond Quenau, Guillaume Apollinaire, quella di artisti, performer, drammaturghi come Jasper Johns, Lawrence Weiner, Yvonne Rainer, Adrian Piper, tra gli altri. Tra le pagine di 0 to 9 vengono pubblicati per la prima volta i paragraphs on conceptual art di Sol LeWitt, fra le altre cose. Ne vengono stampate solo poche copie per numero, circa 300-400, e i costi della vendita non bastano a coprire quelli di stampa. L’avventura dura pochi anni, e sarà una sorta di antefatto nel lavoro di Vito Acconci per il passaggio dalla pagina scritta alla performance. Oggi i numeri della rivista sono praticamente introvabili.
Nel primo numero 0 to 9, Vito Hannibal Acconci, all’epoca un poeta trasferitosi da poco a New York, figura discreta e introversa degli ambienti di avanguardia, di origini italiane abruzzesi, con un’ossessione per il cattolicesimo irlandese, la poesia, e un rifiuto per le sue radici italiane – così manifeste nel nome di battesimo – include nel primo numero della rivista la poesia Alphabetum di Edoardo Sanguineti.
Prima di allora, Alphabetum è una composizione curiosa e frammentaria, fatta di immagini e stralci verbali disconnessi, inosservante delle regole di composizione tradizionali della poesia. Alphabetum è stata già pubblicata all’interno di una rivista di cultura visuale, connessa all’arte, alla poesia e la ricerca nel 1960, in una delle esperienze editoriali d’avanguardia più interessanti di quegli anni per il sud Italia – e l’italia in generale – che è Documento Sud. Rassegna di arte e di cultura di avanguardia: rivista fondata nel 1959 da Luca (Luigi Castellano) affiancato dalla redazione, in quasi tutti i numeri, di Guido Biasi insieme a Stelio Maria Martini È qui che le storie si incrociano e un filo sottile lega Vito Acconci, il primo artista che si incontra in mostra seguendo il percorso a piedi del palazzo attraverso le scale, alla città di Napoli. Poco tempo dopo la fine dell’avventura editoriale di 0 to 9, Sanguineti sarà anche professore all’Università di Salerno.
Vito Acconci, Edoardo Sanguineti, Napoli, il Gruppo 58, la scena underground di avanguardia poetica, teatrale e artistica newyorkese, gli scrittori e poeti di Gruppo 63, si incrociano ancora più fittamente in una rete intricata di cortocircuiti tra generi e linguaggi, intersecando parola e immagine nelle istanze della poesia verbo visiva, della performance, delle azioni e dei nuovi media, attraverso il video, la televisione, le telecomunicazioni nel clima di sperimentazione internazionalmente diffuso in quegli anni.
Il titolo della mostra, ti attende il filo spinato, la vespa, la vipera, il nichel è tratto dal primo verso di Alphabetum, un affresco frammentario, fatto di immagini disconnesse e salti pindarici in cui Sanguineti descrive “il bel paese”, l’Italia, al figlio Federico. Un’Italia che cambia, fatta di contraddizioni, progresso, e sorti dubbie. A suo modo un “prologo” alla nostra attualità e i tempi incerti che viviamo – innervata però da uno spirito compositivo libero, di associazioni, riferimenti e suggestioni che, ribellandosi alle norme della prosa e anche della poesia, costituiscono un collage immaginario di elementi della realtà. Uno spirito, quello compositivo e associazionistico libero, ecfrastico, come è stato definito, quello di Sanguineti – in movimento tra poesia e immagine, verbo-visivo, spesso nutrito dalla collaborazione a più mani con artisti e altri scrittori (come Baj, Scialoja, e altri) – che informa anche quello della presente proposta di mostra. Qualcuno noterà che il titolo italiano della mostra è diverso da quello inglese. La frase in italiano rispetta il primo verso della poesia di Sanguineti come pubblicato nel 1960 in Documento Sud. Quello in inglese, invece, rispetta il primo verso della stessa poesia come è stato pubblicato nella traduzione di Robert Viscusi nella rivista 0 to 9. Ho pensato che fosse importante rispettare questo slittamento e lost in translation, nel tempo e nella vita di questa poesia.
Cercando di mettere insieme, attraverso un’associazione altrettanto libera e non troppo disciplinata di idee, una stagione che mi sembra fondante per la città di Napoli – come quella degli anni sessanta e poi settanta, con la verve creativa sperimentale del teatro d’avanguardia, dell’arte visuale, della poesia – soprattutto per la sua storia artistica e di gallerie, che ben conosciamo, e le storie di altri artisti e luoghi, ho cercato di fare una selezione di opere dalla Collezione Morra Greco che da un lato rispecchiasse questo aspetto multidisciplinare, ibrido, e indisciplinato al confine tra quelli che si definiscono “generi”, sia in termini mediali, come il disegno, l’acquerello, l’installazione, la performance; ma anche il multiplo, la fotografia, il documento, perfino l’invito; sia tra temi e motivi, muovendo il pensiero e il linguaggio sulla falsariga del gergo del teatro, ma anche della musica, della letteratura, dell’editoria, e delle arti visive, naturalmente.
Tutti gli artisti in mostra spaziano, se vogliamo, attraverso grappoli concettuali diversi e interconnessi fra loro: Vito Acconci, la performance, il teatro, la poesia, Henrik Olesen, il linguaggio, l’archivio, le politiche di identità, Roberto Cuoghi, la trasformazione, la performance del sè, la psicologia, Markus Schinwald, nuovamente il teatro, il subconscio, la protesi, l’oscuro, l’invisibile, Paloma Varga Weisz, lo spirituale religioso, Ian Kiaer, l’invisibile, la smaterializzazione dell’opera, il gesto, Julius Koller, l’utopia, l’architettura, Pablo Bronstein, il fare mondi, il Joe Malamente dell’avventura televisiva di Pino Pascali, e ancora, ancora, ancora mille connessioni e luoghi possibili in cui andare e dirigersi, che ho riassunto in una mappa visiva, fitta e volutamente lacunosa, a corredo e apparato di questo testo.
Dall’altro lato ho cercato anche di raccontare l’importanza e il peso di questi artisti all’interno della Collezione Morra Greco, quindi la sottile eleganza e pregio di questa raccolta nel prestare attenzione a corpi di opere apparentemente minori nel percorso di alcuni artisti, ad aspetti effimeri e più delicati, meno muscolari e più acuti, del collezionismo di arte contemporanea. Tutti aspetti che richiedono la capacità di dismettere i panni di un collezionismo fatto di accumulazione simbolica per farsi sensibile verso pratiche di cura e conservazione che sembrano lavorare più per un futuro ancora da venire che per un presente di legittimazioni simboliche.
Infine, abbiamo cercato di rispecchiare questo spirito ludico, fatto di associazioni e libertà, anche nella struttura generale della mostra, cercando di trasportare questi pensieri anche su un piano strutturale e istituzionale all’interno della fondazione, del fare-una-mostra, e del concept curatoriale generale del progetto. Questo segmento è il frutto di una cooperazione oleata e paziente tra tutte le parti che compongono l’ossatura della fondazione: educativa, curatoriale, allestitiva, spettatoriale.
Come un’artista che amo molto mi ha detto recentemente, “Giulia, lascia perdere le categorie – arte, teatro, galleria, museo. Entra nella poesia”. Penso spesso a questa frase, la lascerò in chiusura di questo testo e ad apertura della variazione su tema che verrà dopo la mia.
GP
Tutte le immagini Courtesy Collezione Morra Greco, Foto di Amedeo Benestante.
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