Keep on Movin’ \ Piano 1

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4. Sam Durant (1961, Seattle, Stati Uniti)

U.S. History (Blues for Abraham Lincoln), 2002, è un’installazione accompagnata da una ballata dedicata ad Abraham Lincoln. L’immagine dell’albero rovesciato fa riferimento alla serie di fotografie scattate tra lo Yucatan, New York e la Florida nel 1969 da Robert Smithson, Upside Down Trees, che l’artista nel suo saggio Incidents of Mirror Travel in the Yucatán (1969), descrive come “monumenti alla sradicatezza”, in riferimento a figure rivoluzionarie come quella di Gesù Cristo.

Abraham Lincoln, presidente degli Stati Uniti e uomo di stato, celebrato come patriota della nazione, fu un convinto antischiavista. Nel 1864, Lincoln fece approvare l’emendamento alla Costituzione che sanciva finalmente l’abolizione della schiavitù negli Stati del Sud. Ciò nondimeno, fu anche il firmatario della più grande esecuzione di massa negli Stati Uniti che ebbe luogo a Mankato, in Minnesota, nel 1862, dove trentotto Indiani Dakota persero la vita.

Il lavoro di Sam Durant indaga tematiche politiche connesse alla storia americana mescolando riferimenti all’arte minimal e post-minimal, storia del rock’n’roll, e attivismo, facendo luce sul lato spesso in ombra della storia e delle strutture del potere iscritte nella sua narrazione e trasmissione.

In un esercizio di revisionismo, l’opera interroga anche un altro aspetto della storia Americana, indagando il conflitto tra nord e sud del paese –– un modello di conflitto sociale ad oggi universale per quasi tutte le geografie del pianeta. Sito al primo piano della Fondazione, U.S. History (Blues for Abraham Lincoln), riflette sull’ambivalenza delle grandi narrazioni denunciando un motivo che sembra caratterizzare gli equilibri del mondo anche nell’epoca tardo-moderna, come il conflitto tra poteri dominanti e minori.

4. Sam Durant, Storia degli U.S.A. (Blues per Abraham Lincoln), 2002, Albero, specchio, sistema sonoro, Albero: 135 cm, Specchio: 112 x 112 cm

 

 

5. Jonathan Monk (1969, Leicester, Regno Unito)

A Work in Progress (to be completed when the time comes) 1969 –, 2005 è una scultura funeraria in granito nero che il collezionista è chiamato a terminare al momento opportuno, ironizzando sulle procedure, il sistema e il funzionamento dell’opera d’arte in un gioco delle parti tra artista e proprietario dell’opera.

Spesso appropriandosi e deviando leggermente da opere e idee di artisti concettuali, minimalisti e post-minimalisti, il lavoro di Jonathan Monk destabilizza il principio di unicità, operando attraverso operazioni meta-artistiche, mettendo in discussione l’autorialità, e desacralizzando il mito dell’artista-genio.

La pratica di Monk spazia tra diversi media e formati, dal neon e la pittura ai libri, dalla scultura alla fotografia, dal video all’installazione. Gli elementi delle “storie” che costruiscono le sue opere sono tratti e mescolati con eventi autobiografici, riferimenti storici o aspetti trascurati della vita quotidiana. Membri della famiglia di Monk, artisti-mito di generazioni precedenti o perfetti sconosciuti, così come oggetti e immagini di tutti i giorni, entrano nell’opera senza distinzioni gerarchiche o confini tra cultura alta ed esistenza ordinaria.

Mettendo in discussione lo status dell’originalità, dell’autore e quindi dell’opera d’arte stessa, del sistema dell’arte e delle sue regole o convenzioni, le opere di Jonathan Monk spesso riflettono i modi potenzialmente infiniti di interpretare la storia, la storia dell’arte o i fatti, rivelando le innumerevoli potenzialità della realtà. 

5. Jonathan Monk, A Work in Progress (to be completed when the time comes) 1969 – , 2005, Granito nero, scolpito, 60 x 40 x 3 cm, Unico

 

7. Petra Feriancová (1977, Bratislava, Slovakia)

L’installazione Judge, 2014 fa riferimento al tribunale dell’Areopago ad Atene e al processo di Socrate che, come è noto, non si rivolse mai in forma diretta verso i giudici (se non dopo la sua condanna definitiva), ma utilizzando anche in quella occasione la forma del dialogo che aveva caratterizzato la sua filosofia basata sul dubbio e l’ironia, costatagli la vita.

L’opera, esposta in Fondazione nel 2014, rispecchia il processo di immagazzinamento e rielaborazione di suggestioni visive e mnemoniche, percettive e inconsce, filtrate dal tempo e dalla soggettività dell’individuo, formandone la conoscenza in un costante corpo a corpo con la propria storia personale. La presenza dei piedistalli, come elementi ricorrenti nella prassi museale, questionano il museo come “contenitore” nella formazione del sapere che, manipolando e canonizzando il significato degli oggetti, ne muta e distorce il significato originario.

Il lavoro di Petra Feriancová si basa sull’uso e la vivificazione dell’archivio. La sua pratica indaga la meccanica e l’associazione di immagini e oggetti, storie reali e intuizioni archetipe che, mescolandosi alla vicenda autobiografica dell’artista, formano uno spartito di connessioni che collegano il presente al passato in una sorta di continuum ininterrotto, presentificando una memoria universale nel portato simbolico di accidenti e oggetti, o nella memoria atavica iscritta in materiali come il legno, l’argilla, o il metallo.

Nulla sembra si distrugga o si crei, in una circolarità di energie e materia che si conserva e si rigenera, come la pelle di un serpente.

Posta in dialogo con il lavoro di Giulia Piscitelli, queste opere riflettono due forme differenti di elaborazione e riflessione attorno alla cultura oggettuale e delle immagini, indagando per certi versi il suo accumulo, la sua archiviazione, il suo riuso, e il suo rammendo, entro un sistema e una contemporaneità che influenzano e agiscono, consciamente o meno, nella sfera privata dell’individuo, con esiti del tutto differenti.

7. Petra Feriancová, Judge, 2013, Sedia, piedistallo, tronco d’albero, monete, tessuto, dimensioni variabili

 

8-9. Giulia Piscitelli (1965, Napoli, Italia)

Se la data di realizzazione di Untitled 1989 saluta una svolta epocale nella storia europea e globale, segnata dalla caduta del muro di Berlino e l’avvento della globalizzazione economica e finanziaria, il video è un video che non ritrae una performance ma un’azione qualsiasi, come lavare i piatti, i panni, o un’altra persona, compiuta non dall’artista ma nella vasca da bagno dell’artista. Un gesto di cura, quasi di manutenzione, che risponde alla semplice esigenza di lavare via la polvere dalla superficie di un oggetto. Il suono, in sottofondo, è quello di una telecamera Super 8, poi riversata in digitale, a cui si deve l’illuminazione crepuscolare.

Il lavoro di Giulia Piscitelli si snoda attorno all’osservazione del quotidiano, agli aspetti più umani che si imprimono con forza nella storia e nella memoria degli oggetti che ci circondano, incorniciando gli eventi che accompagnano l’esistenza. Le valenze storiche e simboliche della cultura materiale per la sfera dell’individuo partecipano in maniera del tutto naturale di significati collettivi e sociali. La sua pratica si dispiega come un esercizio di cura e ammenda che non arresta la vita degli oggetti al termine della loro funzionalità, rifiutando il consumo ossessivo capitalistico e trasformando l’oggetto inerte in elemento organico, in una forma poetica di lettura e significazione della realtà e dei suoi angoli ciechi, trascurati dalla vita di ogni giorno.

Così Scaletto Organico, 2007, è uno scaletto appartenente da generazioni alla famiglia dell’artista. Una volta rotto, l’artista ha deciso di attribuirvi status di opera, dando in questo modo una continuazione organica alla sua vita materiale.

In questa immagine, si specchia la parabola antropomorfica della vita degli oggetti e la destinazione inevitabilmente destinata al consumo dell’esistenza umana, costellata però di piccoli gesti e momenti imprevisti di poesia.

Posta in dialogo con l’installazione di Petra Feriancová, entrambe riflettono un lavoro sull’archivio, personale e altrui, in cui la storia materiale ed emotiva inscritta nella materia fa da tramite per una memoria storica o politica, quasi come controindicazione di una significazione biografica e personale.

8. Giulia Piscitelli, Scaletto Organico, 2007, Legno, 160 x 80 x 40 cm

9. Giulia Piscitelli, Untitled ’89, 1989, DVD, Super 8 trasferito su dvd, suono, 3’22”

 

10. Katja Strunz (1970, Ottweiler, Germania)

Für Antoine Augustin Cournot (Visionary Fragment), 2003 fa parte della serie Visionary Fragment e si compone di un bronzo ottenuto dalla fusione di un alveare di api abbandonato dedicato al filosofo e matematico francese Antoine Augustin Cournot che per primo teorizzò il concetto di domanda e offerta nella storia dell’analisi economica.

Il lavoro di Strunz è fortemente caratterizzato da un riferimento al tempo, che si posa sulla superficie dei materiali riciclati che compongono le sculture. In questo, è centrale il riferimento alla scultura minimalista e post-minimalista, come One Ton Prop (House of Cards), 1969, di Richard Serra, a cui allude l’opera in mostra. Non è soltanto la ripetizione e la modularità geometrica delle forme a costituire un riferimento, quanto la riflessione sui materiali e il processo di realizzazione dell’opera che alterna processi di produzione industriale e artigianale, che nel caso dell’alveare, anziché essere derivati da un processo meccanizzato, come nella scultura minimalista, provengono da una costruzione organica. Dal vegetale all’animale, e dall’animale all’umano, il miele rappresenta un intellettualismo rigenerato e nel simbolo dell’alveare allude a una società perfetta.

Nel gesto di fondere in bronzo un alveare abbandonato, così come il riferimento storico al minimalismo, e più in generale l’atto di monumentalizzazione di qualcosa di organico in lenta decomposizione, emerge il concetto di tempo e storia che caratterizza la pratica della Strunz.

Posta in dialogo con la trappola di Andreas Slominski, queste opere in riflettono due diverse forme di temporalità, rapporto con la storia, lo spettatore, e di linguaggio artistico: una perennemente sospesa, in attesa di scattare, completamente concentrata nel presente, in cui l’artista è assente e si ritira dal mondo lasciando lo spettatore in trappola. Dall’altra, un rapporto con la storia costantemente ricordato, filtrato dalla memoria e dal riferimento alle avanguardie storiche, al costruttivismo, modernismo, e minimalismo.

10. Katja Strunz, Visionary Fragment (für Antoine Augustin Cournot), 2003, Bronzo, 39 x 22 x 24 cm

 

11. Andreas Slominski (1959, Meppen, Germania)

 Biberfalle, 1987, è una trappola per castori collocata in perpetua attesa. Apparentemente innocue o piacevoli, le trappole che Slominski colleziona e produce dal 1984-1985 sono dei congegni e dispositivi scultorei meticolosamente programmati che con la loro presenza sospesa questionano l’atto stesso di mostrare cercando un dialogo diretto con lo spettatore.

Alludendo al paesaggio rurale, alla fauna e all’arte venatoria, il cacciatore come l’artista e il suo pubblico condividono una stasi indotta dove l’opera innesca la ricerca della traccia di un passaggio (un paradigma indiziario quasi): quella del suo autore. Un funzionamento che concorre al tentativo dell’artista di ottenere un grado di trasparenza e universalità che passa attraverso la dislocazione e la funzionalità.

Slominski nasce e cresce nella Bassa Sassonia formandosi ad Amburgo durante gli anni Ottanta. A fianco allo sfavillante ritorno alla pittura, si sviluppa un filone di ricerca dedito ad analizzare il linguaggio artistico e il suo statuto, rinegoziato dal rapporto con quello mediatico, del cinema, della televisione e del computer. In questo scenario, in cui l’immagine e l’oggetto acquisiscono una progressiva instabilità, il lavoro di Slominski innesta un immaginario rurale del tutto opposto, che registrando la progressiva scomparsa dell’autore-artista dall’opera, propone una riflessione sulla legittimità o meno del mostrare, giocando con l’assurda presenza di un’opera-trappola in un museo.

Sia Katja Strunz che Andreas Slominski, in dialogo in questa sala, sono di nazionalità tedesca. Le opere si confrontano riflettendo un diverso e opposto concetto di tempo, descrivendo il passaggio di testimone tra due generazioni differenti e la diversa reazione di fronte alle vicende storiche che intercorrono tra l’una e l’altra.

11.Andreas Slominski, Biberfalle, 1987, Legno, ferro, 26 x 42 x 264 cm

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  1. Manfred Pernice (1963, Hildesheim, Germania)

 

Bianca, 2010 è una formazione scultorea composta da un ripostiglio in legno ricoperto internamente da carta da parati e moquette illuminato da un lampadario al quale sono stati appesi un cartone di succo di frutta, un barattolo in latta, una tazzina, dei braccialetti e altri oggetti di scarto.

 

Combinando elementi disparati con simboli dell’architettura storica modernista, procedimenti DIY, e materiali come il cartone, il compensato marino, o il cemento, la pratica di Pernice si serve delle arti applicate o dell’architettura per investigare gli angoli ciechi della realtà, le convenzioni di gusto, le dinamiche sociali, e le situazioni emotive che costellano la nostra esperienza quotidiana.

 

Esulando da qualsiasi funzionalità, queste formazioni sono elementi perfettamente compiuti, totalmente autonomi nello spazio. Questionando la nozione di mostra, più che opere o semplici sculture Pernice elabora delle formazioni scultoree, o Gebilde, che associano in una catena di rimandi elementi disparati del contesto urbano, commerciale, e domestico assemblati in ambienti o tra loro.

 

Nel corso di una carriera più che ventennale, l’artista ha sviluppato diversi moduli-modelli che caratterizzano diverse fasi della sua produzione: dall’unità-Dosen (del barattolo), a quella delle Barrieren (barriere), che funzionano come motivi componibili all’interno di ambienti complessi che spesso si strutturano in opere composte da tre segmenti differenti, in cui ciascuno combina temi e motivi differenti dall’estetica canonica (come ad esempio delle boe, delle antenne, o dei dissuasori in cemento).

 

Nato e cresciuto nella Germania dell’ovest, la ricerca di Pernice registra la confluenza tra la cultura materiale dell’est e quella dell’ovest all’indomani della caduta del muro di Berlino, e l’incontro-scontro tra i moduli provenienti dall’una e dall’altra parte della cortina, concentrandosi non tanto sull’impatto storico, ideologico o politico di questa crasi, ma sulle conseguenze e i meccanismi che ha messo in atto.

 

 

 

 

 

 

  1. Manfred Pernice, Bianca, 2010, Cassa di legno, tappeto, carta da parati, lampadario, cavo elettrico, vari materiali trovati, 234 x 105.5 x 85 cm