Tanz auf dem Vulkan

Storie dalla Collezione Morra Greco II

12.10.2023 \\ 27.01.2024

CANDICE BREITZ | ADRIANO COSTA | LOTHAR HEMPEL |EVAN HOLLOWAY |JUDITH HOPF | JONATHAN HOROWITZ | JIM LAMBIE | MILTOS MANETAS | WIN MCCARTHY | RYAN MENDOZA | HELEN MIRRA | HENRIK PLENGE JAKOBSEN | DANIEL PFLUMM | HANNAH STARKEY | SIMON STARLING | JOHN PILSON | TIM ROLLINS & K.O.S. | HIROSHI SUGITO

 

TANZ AUF DEM VULKAN è una selezione di opere di pittura, scultura, installazione, fotografia e video dalla collezione Morra Greco. I lavori in mostra interrogano l’eredità del modernismo attraverso una lettura della società e della vita individuale nel tardo capitalismo.

Il titolo della mostra fa riferimento a un musical tedesco del 1938 ispirato a una frase pronunciata dall’allora ministro degli affari esteri della Germania, Gustav Stresemann, che definì la società tedesca nel mezzo di una turbolenta situazione di cambiamento come “danzando su un vulcano”. Il titolo è stato in seguito ripreso per un film documentario del 1998, Berlin Techno Sex: Tanz auf dem Vulkan, incentrato sulla scena gay berlinese inserita entro la cornice della sottocultura musicale della techno, il mondo del clubbing, e uno scenario di fuga e liberazione che ha caratterizzato più in generale lo spirito dei primi anni duemila e il post caduta del muro di Berlino.

Un immaginario nutrito dalla produzione di massa, la nascita dei primi telefonini, la diffusione di internet e delle fantasie post-human nell’ambito di un grande nascente e iperconnesso villaggio globale. L’era dei rave e della musica techno, delle droghe sintetiche, delle tute acetate, minacciata dalla grande crisi mondiale dell’AIDS e caratterizzata da un clima di fervente attivismo politico, forme di protesta e ribellione in contrasto con la nuova, interconnessa, grande società dei consumi. L’era di consolidamento, insomma, del capitalismo post-industriale in cui, all’indomani della grande non-fine del mondo e del nuovo millennio, è sembrato che il tempo curvasse su sé stesso ripetendosi ancora e ancora, tornando sui moduli e le ossessioni del passato, deviando solo leggermente la propria traiettoria.

Fotografando per il secondo anno di seguito uno spaccato della collezione Morra Greco, la mostra traccia un percorso nell’arte internazionale dai primi anni Duemila al giorno d’oggi, esaltando il particolare legame della collezione con l’arte centro europea che motiva la scelta del titolo. Uno sguardo, quello riportato in mostra, proiettato in parte attraverso i progetti svolti presso la Fondazione Morra Greco, dove sono nate alcune delle opere esposte in veste di progetti site-specific, concepiti espressamente per la vecchia foggia del Palazzo Caracciolo d’Avellino prima del restauro del 2015. Tra questi, le ceramiche di Judith Hopf, realizzate nel 2012, in cui l’artista giocava a personificare come personaggi fittizi le impalcature e strutture di sostegno dislocate nelle sale del palazzo, montate originariamente per metterne in sicurezza gli ambienti pericolanti che riecheggiavano la precarietà di una città colpita dal terremoto degli anni Ottanta.
Danzando su un vulcano, quindi, proprio come la città e il momento di tumulto e transizione che ha caratterizzato il passaggio da un millennio all’altro, di instabile precarietà e perenni lavori in corso che, più in generale, caratterizzano e non lasciano mai il paesaggio di questa città.

Le opere in mostra hanno tutte o quasi in comune l’utilizzo di simboli e icone della modernità. Codici attraverso cui gli artisti hanno problematizzato questioni e tematiche differenti, da quelle relative alla forma e la composizione artistica, come nel caso del lavoro scultoreo di Evan Holloway o della pittura di Ryan Mendoza, ad altre riguardanti l’intervallo tra realtà e finzione nella cultura dei consumi come nei collages di Jonathan Horowitz, o lo statuto dell’immagine pittorica nel digitale come nella serie POWERBOOK, 1999 di Miltos Manetas. Un universo, insomma, tra on ed offline, che trova un diretto contraltare nell’opera meticolosamente artigianale, in lana e legno, di Helen Mirra, Railroad Ties (Sleeper) IV, del 2000.

Se quindi da un lato la fine del millennio vede l’ingresso nel mondo e immaginario del digitale con tutte le fantasie che ne derivano, accanto a una rielaborazione in chiave post-moderna degli infiniti stimoli ai quali l’individuo è soggetto, dall’altro trova anche una reazione in chiave anti-moderna nel lavoro di artisti che tornano su pratiche performative, materiali poveri e poveristi, attraversando un solco della ricerca artistica in cui si inserisce anche il lavoro dell’inglese Simon Starling. Tra le rovine di questa conclamata modernità si innestano i recessi lasciati nella memoria collettiva dalla cultura pop, trasfigurati nell’intimo one-take canticchiato da Candice Breitz, che si filma riflessa sui finestrini dello scomparto di un treno in viaggio in Me Myself I, 2001, dal titolo di una canzone di Joan Armatrading, o l’installazione Garden Path Sentence, 2021, di Win McCarthy, riadattata espressamente dall’artista per la sala al primo piano della fondazione, una sorta di ritratto attraverso oggetti personali, della cultura materiale o del paesaggio urbano che misurano in qualche modo il perimetro della vita individuale .

Attraversando il rapporto tra linguaggio e formazione del sè, costrutti sociali e individuo, si profila un’altra dimensione della post-modernità, quella più nascosta della solitudine del villaggio globale, identità tra tante rese anonime dietro lo schermo di un computer, connesse ma isolate come in un gigantesco Matrix. Così i collages di Jonathan Horowitz installati all’interno di un display disegnato da Las Ricas sfilano come una carrellata di immagini dalle pagine dei magazine di lifestyle come LIFE o come poster attaccati sulle ante dell’armadio di una cameretta.

La separazione tra privato e pubblico, personale e collettivo si confonde e si sbiadisce, la regolarità della griglia che li separa è annientata come in Above the Grid, 2000, un’installazione a doppio canale di John Pilson in loop simultaneo sui due televisori al centro della sala grande al secondo piano. Un’altra forma di contemporaneità è qui evocata, quella non quantizzabile del capitalismo cognitivo, l’enorme macchina di alienazione che alimenta la nostra never-off cultura dello straniamento.
Un senso di straniamento analogo all’universo femminile di Hannah Starkey, che si inserisce in un altro filone di riflessione e utilizzo dell’immagine stereotipata, questa volta quella della donna, di contaminazione tra i linguaggi dell’arte e quelli della moda con la comunicazione della cultura mainstream. Mentre un discorso diverso accomuna – e differenzia – per alcuni aspetti il lavoro di artisti come Jim Lambie, Henrik Plenge Jakobsen, Daniel Pflumm, Tim Rollins & K.O.S. (Kids of Survival).

Sia Jakobsen che Tim Rollins, anche se in maniera differente, profilano un’idea di arte a sfondo relazionale e collaborativo. Mentre Plenge Jakobsen è biograficamente inserito nella teorizzazione di Nicolas Bourriaud dell’estetica relazionale e nel 1996 partecipa alla mostra Traffic, al CAPC di Bordeaux, che sancisce il momentum della suddetta arte relazionale (da cui immediatamente Plenge Jakobsen prende le distanze), Tim Rollins & K.O.S. è un collettivo che opera principalmente a New York e si costituisce a partire dalla collaborazione relazionale di Tim Rollins con un gruppo di ragazzi del South Bronx, esplorando l’arte come una forma di collaborazione e la creatività come agente di cambiamento sociale.

Jim Lambie e Daniel Pflumm riflettono invece su un’arte che prende le mosse da dei presupposti “comunitari”. Solo che la comunità da cui prende le mosse il loro lavoro è quella più “escapista” e alternativa delle sottoculture, della musica, dei rave. Pflumm integra l’estetica e i presupposti del no-logo che vige nel mondo dei club e della disco in opere come quelle in mostra che consistono in light-boxes di insegne pubblicitarie di grandi marchi svuotati di titoli e scritte. Dell’insegna della Panasonic, ad esempio, in mostra al terzo piano della fondazione, o di quella MasterCard, resta solo la vuota e luminosa silhouette. Diversamente, ma non troppo, nel lavoro dello scozzese Lambie torna l’idea della musica e della festa, della comunità, dell’ebbrezza e dello psichedelico, che cela un vuoto sotterraneo, al di sotto di una sfavillante facciata.

Il ruolo simbolico della musica e delle sottoculture subentra allora nella creazione di esperienze trasformative in grado di sfociare in narrative identitarie comunitarie e sociali alternative rispetto a quelle di massa. Qualcosa di simile a quello che fanno artisti come Adriano Costa, Lothar Hempel, e da un altro punto di vista, Hiroshi Sugito, i quali, sottraendo elementi e suggestioni alla quotidianità, facendo ancora una volta i conti con l’eredità modernista e restituendola in una poetica del detrito e del marginale, magnificano e fanno riflettere sul valore simbolico attribuito all’arte, riqualificando oggetti scartati dalla società consumistica e, aprendo lo sguardo su scenari inaspettati.

Proprio come la serie di pitture di Hiroshi Sugito, in un linguaggio semi-astratto, nutrito di luce e piccoli dettagli gestuali, che riecheggiano la delicatezza della pittura tradizionale Nihonga, e che segna una delle ultime acquisizioni della collezione Morra Greco, in segno di una continua crescita verso una direzione per così dire “contemporanea”, in grado di cogliere il momento storico, ma concentrata a inquadrare non tanto il punto dove guardano tutti, ma direzioni e traiettorie rimaste parzialmente inascoltate.

 

Concept and text by Giulia Pollicita

 

Il progetto espositivo è finanziato con risorse del POC Campania FESR 2014/2020, Piano Strategico Cultura e Beni Culturali Global Forum – Mostre d’arte contemporanea EDI 2023 – CUP C64H22001450006

 

Sfoglia la Gallery

Foto di Danilo Donzelli, Courtesy Collezione Morra Greco